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Immagine del redattoreElisabetta Scaramelli

LA LUNA E I FALO' DI CESARE PAVESE

Cesare Pavese nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe, in una famiglia benestante. Si trasferì a Torino, ma rimpianse i luoghi e i paesaggi dell'infanzia, che collegava alla spensieratezza e alla serenità.

L'animo di Pavese era sempre stato inquieto, tanto che neanche il premio Strega lenì i residui delle relazioni tormentate e dolorose che lo avevano segnato. La luna e i falò (1950) è l'ultimo romanzo di Pavese ed è considerato il più significativo della sua poetica e l'insieme dei temi a lui più cari.

LETTURA DOVEROSA

La luna e i falò non può dirsi sicuramente un titolo appetibile per giovani e meno giovani abituati all'immediatezza, alle frasi brevi e semplificate, al linguaggio sterilizzato e depredato di aggettivi. E' un romanzo che rispecchia pienamente l'epoca in cui fu scritto, pertanto è descrittivo e dettagliato e sotto alcuni aspetti mi ha ricordato lo stile di Flaubert. A differenza di quest'ultimo, però, l'accuratezza e il dilungarsi su dettagli geografici mi sono sembrati forzati da un'esigenza dell'autore. Il romanzo è chiaramente un cammino attraverso ricordi, rimpianti, luoghi conosciuti, vissuti e poi perduti, e Pavese mi è sembrato che volesse soddisfare, attraverso la sua opera, il desiderio di una memoria quasi spenta, che aveva bisogno di essere accarezzata per l'ultima volta attraverso la narrazione.

Perché doverosa?

Sebbene abbia sbadigliato più volte e affrettato la lettura di alcune pagine - ero in cerca di qualcosa di potente che potesse far vibrare la noia -, sentivo, com'era accaduto in altre occasioni, di avere un dovere nei confronti dell'autore. La vita travagliata e le turbolenze che si avvicendavano nel suo animo mi hanno spinta a proseguire una lettura che, se non si fosse trattato di Pavese, avrei interrotto dopo dieci pagine. Appunto, ho sentito di dovere leggere, e il dovere era di gran lunga superiore al piacere. Per ore ho atteso di imbattermi finalmente in qualcosa di potente, come il marinaio stanco di navigare su acque calme che attende l'onda agguerrita capace di far ballonzolare la nave. E infine, proprio le ultime pagine mi hanno regalato quel pizzico di brivido giunto in punta di piedi, senza sconvolgere, senza creare discrepanza tra le prime e le ultime pagine.



Ricordi e rivelazioni

Se dovessi riassumere quest'opera con due parole, queste sarebbero ricordi e rivelazioni.

Pavese torna sui suoi passi nelle vesti di Anguilla, il protagonista, dopo essere stato lontano dai luoghi che lo hanno visto crescere. Attraversa colline e pianure, rivede visi conosciuti e inspessiti dal tempo e dalla fatica, ma soprattutto si chiede dove siano coloro che tra quei visi non ha scorto.

Anguilla è diventato benestante, ma il passato non lo ha dimenticato, anzi, girovagando per le strade e le campagne e le vigne che lo hanno visto fanciullo, lo cerca e lo raffronta, attraverso flashback, con un passato più recente.

La luna e i falò sono elementi che richiamano il mondo contadino, il mondo in cui Anguilla è cresciuto prima di emigrare, mentre la guerra divampava e imbastardiva la purezza e la genuinità della campagna. La luna e i suoi cicli determinano la semina e la raccolta; i falò hanno una maggiore estensione simbolica perché richiamano momenti gradevoli legati alla campagna, ma anche episodi violenti.

Tra questi, il più suggestivo è legato alla domanda di Anguilla: "Dov'è Santa?".

Santa, Irene e Silvia sono le sorellastre di Anguilla che al suo ritorno non troverà.


«(...) gli chiesi se Santa era sepolta lì. - Non c'è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due... Nuto s'era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. - No, Santa no, - disse, - non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno c'era ancora il segno, come il letto di un falò.»


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